‘Questo è il nostro Israele, questo è per gli
Ebrei. Nessun palestinese dovrebbe venire in Israele': Una storia
palestino-americana di detenzione all’aeroporto Ben Gurion
Ben Gurion airport
Sono nato a
Gerusalemme Ovest (la cosiddetta metà ebraica di Gerusalemme) nel 1945. Sotto
una pioggia di pallottole che volavano sopra le nostre teste, mio padre afferrò
me e il resto della famiglia e fuggì verso la sua città natale di Nablus alla
vigilia della creazione dello Stato di Israele nel 1948. Siamo rimasti a
Rafidia-Nablus fino al 1952 e poi ci siamo trasferiti a Ramallah dove mio padre
aveva ottenuto un impiego presso l’ufficio postale. Ho frequentato la scuola
parrocchiale e sono entrato nel Seminario Patriarcale Latino a Beit Jala nel
1961 per studiare per diventare prete. Nel 1968 ho lasciato il seminario dove
avevo studiato francese, latino oltre che filosofia e teologia. Sono venuto
negli Stati Uniti nel settembre del 1969 e sono entrato alla Seton Hall University
in South Orange, New Jersey, dove mi sono laureato con una specializzazione in
lingue straniere (Francese e Spagnolo) e nel 1975 ho ottenuto un master dall’università di
Montclair nel New Jersey.
Mi sono
trasferito in California nel 1975 dove ho insegnato lingue straniere nelle
scuole superiori. Mi sono iscritto alla facoltà di teologia nel 1983 presso
Graduate Theological Union a Berkeley, California e ho ottenuto il dottorato
nel 1990. Ho insegnato lingue al San Mateo College, Skyline College, e Westmoor
High School. Mi sono iscritto al corso per diventare diacono permanente nel
2012 perchè è mia intenzione servire le varie comunità Ecclesiali come diacono
nell’Arcidiocesi di San Francisco.
Dopo 21 anni
che non visitavo Gerusalemme e la mia patria Palestina, ho deciso di ritornarci, questa volta come
cittadino americano con un passaporto statunitense, che possiedo dal lontano
1975. Questo viaggio voleva essere prima di tutto un pellegrinaggio religioso
con Padre Bernard Poggi e poi una visita attesa da tanto tempo della mia terra
natale, di amici e familiari che non vedevo da decenni. Una volta che siamo
arrivati all’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, hanno permesso a Padre Bernard di
entrare. Quando è venuto il mio turno, sono stato condotto da una giovane
soldatessa in un “stanza verde” per essere interrogato.
La
conversazione che ne seguì è questa:
Un agente della
sicurezza dell’aeroporto ( che penso fosse un agente dello Shin Bet – i servizi
segreti) incominciò:
Agente: “Ah,
così sei venuto dall’aeroporto Ben Gurion ?”
Me: “Si. Cosa
c’è che non va?”
Agente:
“Non puoi farlo.”
Me: “Perchè? Ho
un passaporto americano. Sono venuto con Padre Bernard, per passare qualche
settimana a Gerusalemme, questo è tutto. Siamo venuti a fare un pellegrinaggio
religioso e a far visita ad alcuni amici e parenti.”
Agente: “No no,
non puoi andare in Israele. Avresti dovuto passare dal Ponte Allenby .”
Me: “Perchè
avrei dovuto fare questo? Non sto entrando come Palestinese, sto venendo come cittadino
americano.”
Agente: “No. Tu
sei palestinese. Perchè stai
negando di essere palestinese?”
Me: “Non sto
negando di essere palestinese. Sono palestinese dalla testa ai piedi. Mio padre
era palestinese, mia madre era palestinese. I miei fratelli sono palestinesi. Mia sorella è palestinese. Mio nonno era un prete ortodosso e posso tracciare le mie
radici palestinesi per gli ultimi 500 anni. Cosa dice che sto negando? Non sto
negando nulla.”
Agent: “No no, tu
appartieni al popolo palestinese. Questo è il nostro Israele, questo è per gli
Ebrei. Nessun palestinese dovrebbe venire in Israele. Avresti dovuto passare
dal Ponte Allenby.”
Me: “Perché
dice questo? Ho mai avuto un passaporto palestinese? Ho mai vissuto sotto
l’Autorità Palestinese? Da quando venne costituita l’Autorità Palestinese non
sono mai stato in Palestina e non ho mai avuto un passaporto palestinese.”
Agente: “Ma tu
possiedi una Carta d’Identità israeliana .” [Egli fa riferimento alla CdI
israeliana che mi venne rilasciata dopo che Israele aveva iniziato
l’occupazione della Cisgiordania nel 1967. Ho avuto una CdI fino a quando sono
partito per gli Stati Uniti nel 1969.]
Me: “Una CdI
israeliana non è un passaporto palestinese. La CdI israeliana mi venne
rilasciata quando ero a Beit Jala, quando stavo studiando per diventare prete
ma lei non può equipararla ad un passaporto palestinese. Giuridicamente
parlando, non sono mai stato cittadino di una nazione chiamata Palestina. Vengo con un passaporto americano e lei dovrebbe onorarlo.”
Agente: “Come
vuoi che onori il tuo passaporto Americano? Vuoi che lo baci, lo abbracci o lo adori? Inoltre sei
scortese e maleducato. Cosa hai da essere così prepotente? Sei un palestinese e
sei brusco e maleducato.”
Me: “Non sono
nè scortese nè maleducato, sto solo precisando i fatti. Le sto solo dicendo che
sono americano, che sono un cittadino americano da 40 anni e che vivo in
America da 46 anni. Così lei ignora tutti questi fatti legali e si focalizza
soltanto sulla mia origine palestinese?”
Agente: “Sarai
deportato in Giordania e entrerai dal Ponte Allemby per continuare la tua
visita alla West Bank” [Il Ponte Allenby è il punto di collegamento tra la
Giordania e Israele. I Palestinesi possono entrare nella West Bank soltanto
attraverso questo ponte perchè non gli è loro permesso di entrare direttamente
tramite Israele vero e proprio.]
Sono ritornato
da Padre Bernard che mi stava aspettando. Ho raccontato a Padre Bernard che
cosa era successo con l’agente dello Shin Beth e aspettammo. L’agente ritornò
con i documenti della deportazione e, in presenza di Padre Bernard, mi fece
capire che sarei stato deportato in Giordania. Rimasi in attesa fino a quando
due altri ufficiali della sicurezza vennero da me e mi dissero “Non sarai
deportato in Giordania ma dovrai tornare indietro da dove sei venuto.” [Aeroporto
di Fiumicino, Italia]. Dissi, “Ma mi era appena stato detto che sarò deportato
in Giordania.” Mi chiesero, “Chi ti ha detto questo?”
Risposi, “Non
conosco il suo nome. Pensate che mi abbia detto il suo nome? E’ l’addetto alla
sicurezza nell’ufficio e che mi ha appena fatto firmare i documenti di
deportazione.” Mi dissero, “No, tu prima devi ritornare in Italia. Se quindi
decidi di ritornare in Giordania dopo essere atterrato in Italia, quella è una
tua scelta.” Ero scioccato ma non avevo scelta se non quella di continuare.
Davanti agli ufficiali israeliani, Padre Bernard mi dà il suo numero telefonico
in Giordania e ci siamo messi d’accordo che ci saremmo incontrati in Giordania
il giorno dopo.
Io e padre
Bernard ci separammo e tornai con gli ufficiali israeliani della sicurezza.
Tennero me (e gli altri) in aeroporto fino all’1:30 di notte del 21 luglio.
Alla fine ci portarono un sandwich. Tra gli altri che erano con me durante il questo
calvario c’erano una donna palestinese e sua figlia ( che erano nate in
Palestina ma cittadine americane). Avevano viaggiato assieme agli altri due
figli della donna, ma siccome i due ragazzi erano nati in America, loro avevano
potuto entrare in Israele. Gli ufficiali israeliani dissero alle due che
sarebbero state rispedite negli USA ma separatamente. Entrambe scoppiarono a
piangere e li supplicarono di essere deportate assieme ma senza risultato. C’era
anche una giovane donna britannica che lavorava con un gruppo di diritti umani
in Israele, una coreana e una giovane russa, nessuna delle due parlava molto
inglese.
Ci condussero
per mezzora via dall’aeroporto. Nella macchina condotta dagli Israeliani, un
giovane coreano che a mala pena parlava un po’ d’inglese, affamato e senza
soldi, chiese alla due guardie con voce estremamente flebile e in un cattivo
inglese, “ Moriremo questa notte?” Eravamo trasportati in un furgone con le
barre – fatto per i prigionieri. Ci tennero come criminali in una struttura di
detenzione che chiamavano “emigrazione”, che non era altro che una prigione e così
avrebbe dovuto chiamarsi, fino a quando siamo stati deportati.
Ci rinchiusero,
mi proibirono personalmente di tenere il mio iPhone, rifiutarono che io
prendessi un libro con me in quella sporca stanza e mi gettarono lì con un
gruppo di poveri uomini, affamati e disorientati provenienti da diverse
estrazioni nazionali ed etniche. Erano circa le
2 di notte.
Abbiamo passato
l’intero martedì nel centro di detenzione senza sapere quando saremmo partiti.
Ero rinchiuso in quella stanza con gli altri uomini. C’era una guardia araba
attorno alla cella. Osai chiedergli “Conosci tutti i nostri nomi e tutto di
noi. Come ti chiami tu?” Rispose, “Mi chiamo George.” Dal suo accento, mi sembrava
che egli fosse di Nazareth.” Gli chiesi, “Perché ci trattate come prigionieri?”
Disse, “E’ vero, lo siete.” Alla fine mi permise di usare il telefono per
chiamare mia moglie, Nariman, per dirle dov’ero. Non so se avessi avuto il
diritto ad una chiamata telefonica all’aeroporto, non lo so perché nessuno me
l’ha mai detto. Le altre guardie rimasero totalmente anonime, ci insultavano
usando un linguaggio irrispettoso ed offensivo e ci proibirono di parlarci da
una cella all’altra, le celle erano separate da un lungo corridoio. Non ho chiuso occhio perché hanno tenuto
accese le forti luci al neon tutto il tempo.
Alle 4 quella mattina, la guardia venne a dirmi di
prepararmi per il mio volo. Mi sentì parlare in arabo con la donna palestinese
con la figlia che erano detenute nella cella di fronte alla mia. Quando ritornò
quella mattina, la madre di Samar stava dicendo che forse stavano
maltrattandoci un pò ma che alla fine ci avrebbero trasferiti in Giordania. Era
molto arrabbiato e urlò, “Ti ho detto di non parlare con gli altri! Sto cercando di rispettarti! Cerca di rispettare te stesso. Va via dalla porta!”
Poi verso le 8
am una guardia entrò nella stanza e freneticamente mi prese dicendo che il mio
aereo era pronto. Come un pazzo, mi condusse all’aeroporto e mi portò
direttamente alla scala mobile e non attraverso l’aeroporto.
Proprio mentre
stavo salendo sull’aereo, chiesi, “Dove esattamente mi state deportando?”
Disse, “Bogotà.”
Esclamai,“Bogota!?
Perché?!”
“Non sei
Carlos?” mi chiese.
“No, sono
George Khoury! Fammi vedere il passaporto che hai tra le mani,” chiesi. Era
quello di un colombiano di nome Carlos.
La guardia si
rese conto dell’errore e freneticamente mi riportò di corsa al centro di
detenzione. La dura corsa irritò malamente il mio nervo sciatico e ne soffro
ancora molto. Ritornammo al centro di detenzione, e di nuovo in cella. Chiamò
forte Carlos. Carlos stava dormendo e si svegliò. Disse, “Sono Carlos!” e venne
portato via.
Senza entrare
in ogni dettaglio, alle 9:30 am di mercoledì ritornarono e mi presero di nuovo.
Mi condussero di nuovo sulla pista e aspettammo per un lungo tempo,
verosimilmente fino a quando l’imbarco era completato e l’aereo pronto. Mi
accompagnarono lungo tutto il cammino fino alla scala mobile. Fino a quel
punto, mi era stato detto che avrei volato fino in Italia in modo che potessi
ritornare in Giordania. Al momento di entrare nell’aereo, egli teneva in mano
una serie di biglietti che mi avrebbero fatto volare negli Usa, via Italia, poi
New York, poi San Francisco. L’agente italiano mi disse che mi avrebbe ridato
il mio passaporto una volta fosse stato certo che io fossi sull’aereo diretto
negli Stati Uniti. Questo è esattamente ciò che accadde. Quando arrivai in
Italia, prima di uscire dall’aereo, chiesi alla hostess il mio passaporto. Mi
disse che di questo si sarebbe occupato un uomo che mi attendeva fuori. Un
ufficiale italiano mi stava aspettando in cima alle scale. Mi condusse con una
jeep in un luogo lontano dall’aeroporto – una specie di stazione di polizia. Mi
portò in una stanza con circa 5 o 6 persone dove ci si poteva muovere con
fatica. Alle 5 del pomeriggio, salii sul volo diretto negli Stati Uniti dove mi
venne consegnato il mio passaporto.
Arrivai a New
York verso le 8 pm quel giorno. Dovetti rimanere in aeroporto fino all’indomani
mattina quando mi imbarcai sul volo delle 6 am. Durante tutto il tempo avevo la
borsa sul grembo tentando di chiudere gli occhi per brevi momenti, seduto su
una dura panca contando i minuti e le ore fino all’ora del volo delle 6,
stringendo cara la vita (la borsa, per fortuna, conteneva la mia insulina,il
mio portafoglio e il mio iPhone. Sono diabetico e separarmi dalla mia medicina
sarebbe stato fatale).
Arrivai a casa
esausto giovedì alle 11:37 am. Chiamai la mia agenzia viaggi per sapere se
avessi potuto essere rimborsato per la mia valigia rubata e per il biglietto di
ritorno della KLM che non avevo utilizzato. Si scoprì che quei fondi erano già
stati usati per pagare il mio trasferimento indietro negli USA.
Ora sono di
ritorno a San Francisco. Mi hanno strappato qualcosa che avrebbe dovuto essere
una vacanza dalle mie lunghe ore di lavoro, un ricollegarmi con la mia terra
natale e i miei vecchi amici, e lo hanno trasformato in un incubo d’inferno. Mi
hanno mancato di rispetto, svilito e trattato come se avessi commesso un
crimine. Vi racconto la mia storia per incoraggiare la gente a visitare la
Palestina per sfidare il teppismo di questa entità razzista e di farlo anche
qui negli Stati uniti come anche in Israele. Sebbene in qualche modo estrema, questa
non è una storia unica. Molti altri casi di arabi americani trattati in modo
razzista dagli Israeliani ad ogni punto di entrata nello stato di Israele o
nella west Bank sono stati documentati.
Molestie, detenzioni, ed interrogatori
sono parte integrante degli sforzi dello Stato di Israele di tenere fuori i
palestinesi da Israele-Palestina e per portarci
più ebrei. Sono i miei propri dollari di tasse USA—più di 3 miliardi di dollari
di aiuti economici e militari - che finanziano l’oppressione del popolo
palestinese. Senza il cieco e incondizionato sostegno finanziario e politico degli
Stati Uniti ad Israele, l’occupazione e tutte le tragedie contro i palestinesi non
continuerebbero!
Il link da
cui è stato tratto questo documento che ho tradotto dall’inglese è:
Giacinto Feletto