ancora un contributo dell'amico Patrizio
Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quello che dice Marco Polo
quando descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo
l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con
più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella
vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per
l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla
malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e
a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con
l'odore degli elefanti dopo la pioggia e la cenere di sandalo che si
raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le
montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno
sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti
nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di
re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate
avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli
conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre
che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è
uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo
incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il
trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.
Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere,
attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana
d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.
Il testo è tratto da "Le città invisibili" di Italo Calvino ediz: Einaudi.