APRIRE PORTE
Avrò avuto
sette o otto anni il giorno in cui mia madre invitò a pranzo un ragazzino
marocchino, che aveva suonato al nostro campanello, con il suo borsone sulle
spalle, proprio qualche istante prima che lei buttasse la pasta.
Con
quell’invito improvvisato e quel gesto di far accomodare al nostro tavolo un
ragazzetto sconosciuto e straniero, senza averlo esaminato, mia madre mi aveva
portato oltre. Oltre il disprezzo, la diffidenza o l’indifferenza che
riempivano i volti e le parole della maggior parte delle persone quando questi
pellegrini bussavano alla loro porta.
Il tavolo di
casa nostra, quello di tutto i giorni era diventato altro, qualcosa di nuovo.
Qualcosa di imprevedibile e di affascinante.
Ripensandoci
ora, che di anni ne ho trenta, e da un paio ho cominciato a viaggiare salendo
su un aereo e andando “lontano”, credo che quello sia stato il mio primo
vero “viaggio”.
Qualche anno
fa i miei passi sprofondavano nel deserto tunisino, sulle orme di Abramo,
quando queste parole hanno aperto uno spiraglio dentro di me: “Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai
spingi lo sguargo verso il settentrione e il mezzogiorno...”. È il Signore
a parlare ad Abramo. Sono parole rivolte ad un padre dopo che ha appena
lasciato andare il proprio figlio.
È
l’esplosione dei confini della promessa, come se il Signore avesse detto ad
Abramo: “Più vedi più ti darò, tu spingi lo sguardo…”.
Spingere lo
sguardo è cercare, è desiderio di vita.
Hanno rimbalzato a lungo, dentro
di me, quelle parole.
Ho
cominciato ad alzare gli occhi ed è arrivato il momento di scegliere. Ho deciso
di partire.
La partenza è un momento di fine e di inizio.
Partire
significa lasciare la propria terra, il luogo che ti ha dato la Vita.
Partire
è
doloroso. Partire è straordinario. È malinconia, e felicità pura.
Ci
vuole coraggio per cancellare ogni dubbio.
E
anche se la destinazione è visibile in una mappa, ogni viaggio ha un falla da
cui può entrare l’ignoto. Ogni viaggiatore non sai mai esattamente dove
approderà.
Abramo
è stato il primo ad incamminarsi per una destinazione ignota, a traversare il mondo da ospite di passaggio, a
essersi fatto straniero per ascoltare la voce del suo mandante.
A lui in una notte di stelle una voce l’ha avvisato di
una discendenza innumerevole quanto lo scintillio che lo sovrastava.
Io
non sapevo e non so quale sia la promessa, mi spinge il desiderio di mostrare e
far arrivare i miei passi nella direzione dove il mio sguardo si è spinto.
Vorrei
inseguire il mio desiderio di Vita.
E
in questo andare ho incontrato l’Altro. Ma soprattutto sono divenuta l’altro.
Mi
sono fatta straniera.
Nella
terra in cui sono arrivata, mi capita di venire accolta da chi non resta
fermo ad aspettare, ma si fa avanti per procurarsi la visita.
Ho ricevuto l’invito di chi ha ben poco ma con
naturalezza sa aprire le porte e condividere ciò che ha. Molto spesso non c’è
una lingua in comune, ma gesti universali.
Così fece Abramo. Era seduto all’ombra delle querce di
Mamre, innanzi alla sua tenda, quando vide spuntare da lontano tre uomini. Si
alzò, andò verso di loro e li pregò di fermarsi presso di lui per un ristoro.
Preparò un pasto e acqua per i loro piedi affaticati. Non sa che sono
messaggeri della divinità.
Sono otto mesi che vivo in una piccola cittadina sull’altopiano
etiope. C’è ancora da fare spazio, da varcare porte e mettersi in ascolto
sull’uscio delle baracche per comprendere questa terra e starle il più vicino
possibile, ma ricevere accoglienze di questo tipo mi fa sentire un po’ a casa,
e soprattutto mi dà la certezza di percorrere ciò che il mio sguardo ha
cercato.
E ogni volta
che mi accomodo, da straniera, in una di quelle case col tetto in lamiera
ritrovo la condivisione che spiazza, attrae e apre a mondi nuovi. Quella che
sfiorai per la prima volta restando seduta al tavolo della mia cucina,
imparando che a volte per viaggiare basta aprire la porta di casa.
Anna
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