Un fisico asciutto,
tonico, energico. Leggermente spigoloso. Parla di fatica e giornate senza
riposo.
Una lunga tunica nera,
sintetica, dai profili argentati. Porta addosso l’odore del fumo, quello che si
respira dentro le alte capanne di questa terra dove il fuoco brucia per cuocere
pane e pietanze.
Un lungo foulard verde
ad avvolgere il capo e a nascondere i capelli scuri raccolti alla base della
nuca.
Un cordino nero al collo a cui sta aggrappata una chiave. Probabilmente
la porta di casa. Usanza, questa, diffusa tra le donne etiopi.
Un anello di finto oro
infilato nell’anulare della mano sinistra. Unico vezzo concesso alla sobrietà
di questo corpo.
Fatìa
è stesa su un lettino targato Unicef, la tunica nera è arrotolata sotto il
seno, il foulard verde è scivolato e la testa ora è scoperta. La chiave non è
più al centro del cordino, è scesa sul seno sinistro. Le mani stringono con
forza i bordi del lettino e sostengono lo sforzo.
Il
marito passeggia solo, a testa bassa, nel cortile dell’ambulatorio. Aspetta
così la venuta al mondo della nuova
creatura.
A
casa ci sono gli altri figli, un maschietto e una femminuccia.
Nella
sala parto di questa zona rurale d’Etiopia Fatìa sta spingendo da quasi due
ore.
Respira
con tutto il suo corpo e saluta l’andare della contrazione con un lungo espiro,
emettendo un suono simile ad uno…“Iòiòiò”. Sotto voce, quasi non volesse
disturbare. O farsi notare.
Tra
una contrazione e l’altra si stende sul fianco sinistro. Risponde alle
indicazioni dell’ostetrica con un impercettibile cenno del capo. Fatìa non chiede, non parla, non da segni di
voler mollare.
Le
ultime forze combattono con lo sfinimento che lento si allarga nelle pieghe del
suo volto.
Da
uno stetoscopio poggiato sul suo ventre si sente il battito del cuore. Sembra
arrivare dal fondo del mare, da un posto lontano e pieno di onde.
Fatìa
accetta la mia presenza muta, la stretta di una mano bianca e sconosciuta tesa
nel goffo tentativo di prendere il proprio posto davanti allo spettacolo del
Tutto che sta andando in scena.
Parole
sussurrate di incoraggiamento e un quaderno sventolato per darle un po’ di
sollievo.
Dalle facce delle
ostetriche si capisce che qualcosa non sta andando nel verso giusto.
Il bimbo è ormai da
un po’ incanalato, sta andando incontro alla vita, ma non ne vuol sapere di lasciare
quel mare.
Cercano ancora una
volta Il battito del suo cuore. Nel frastuono si intuisce un debole pulsare.
È passato troppo
tempo. Decidono di intervenire, aiutando Fatìa con la ventosa.
Due giri di cordone
attorno al collo, attorno alla perfezione e alla fragilità del corpo di una
bimba appena venuta la mondo.
Silenzio.
Solo il contare secco
e quasi metallico che accompagna il massaggio cardiaco. Poi anche la vibrazione
della speranza si spegne.
C’è una bimba che
sembra dormire, custodisce nel suo sonno la Vita intera. L’Inizio e la Fine.
La Bellezza eterna.
E tutto questo sta dentro una
copertina azzurra. Un colore che mi riporta il mare.
Dopo il dolore della placenta, Fatìa rimane stesa sul
lettino.
Questa donna è dentro
quel che è accaduto e al contempo già pronta per la vita che continua oltre la porta.
Una vita che non
aspetta e che non concede molto pause, nemmeno se si tratta di una sala parto.
Fatìa
ascolta l’ostetrica, ma tutto quello che è avvenuto lo si legge senza parole nel
suo corpo e nel suo volto.
Non una lacrima, un’
esclamazione, un lampo di rabbia. Nulla. “Solo” questo istinto, questa
solidità, questa prontezza… Non so che
nome ha e dove si trovi. Ma so che è necessaria in questa parte di mondo. Serve
a spingere, ancora e di nuovo, per
mandare avanti la vita. Qui e altrove.
Forse non c’è il tempo.
Oppure questo non è lo spazio.
O forse non è
concesso.
Forse è una sorte di confidenza
con la morte.
Il tempo per il
pianto. Lo spazio per la rabbia. Un modo per condividere, accogliere e lasciare
andare.
Non ora, non
qui, ma ci sarà anche per Fatìa. È questo suo saper attendere che mi spiazza e
non mi lascia stare.
È qualcosa di molto
lontano da me, è un vivere che non mi
appartiene.
Non passa molto tempo
e Fatìa è già seduta sul lettino. L’accompagnano in bagno.
Esce con addosso un
vestito nuovo e pulito.
Torna a casa col
marito, che tiene tra le braccia il mare.
C’è stato un momento invisibile in
cui la vita e la morte si sono incontrate e
scambiate di posto.
Nascondendosi nel ventre di una
donna.
C’è una linea sottile, un Mistero che
non smette di interrogarci.
Pensieri
all’ombra di questa “nostra” Pasqua etiope.
Grazie Anna. Le tue emozioni giungono forti e (re)sistenti.
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