il consiglio del nostro amico Patrizio
Nel 1962 mio padre mi regalò una macchina
fotografica. Mio fratello ne aveva già avuta una, due anni prima. La sua
assomigliava a una vera camera oscura: una scatola nera di metallo,
perfettamente squadrata, con una lenta da un lato e un vetro, dove si
poteva vedere proiettata l'immagine, dall'altro. Quando mio fratello era
pronto a trasferire quell'immagine confusa sulla pellicola all'interno
della scatola, tirava la levetta e click! Come per magia, la foto era
fatta.
Quello dello scatto era sempre un momento speciale.
Esigeva una preparazione, una cerimonia. Innanzitutto la pellicola era
costosa. Era importante sapere quanti scatti si potevano fare con un
rullino e la macchina mostrava il conteggio aggiornato delle pose
scattate. Parlavamo di rullini, pellicole e numero di scatti come se
fossimo soldati di uno sparuto esercito rimasto a corto di munizioni.
Ogni fotografia richiedeva un certo grado di riflessione e
determinazione: "E' venuta bene?" Fu in quel periodo che cominciai a
riflettere sul significato delle foto che scattavo - e sul perché
fotografassi. Facevamo quelle foto, ovviamente, per avere un ricordo del
momento che stavamo vivendo. Guardando l'obiettivo, ci mettavamo in
posa per altri - per lo più amici, parenti, ma anche per noi stessi -,
quegli altri che avrebbero osservato tali immagini mesi e anni dopo.
Quindi, in realtà, scattavamo quelle foto perché un giorno - forse un
mese, un anno o molti anni più tardi - ci saremmo guardati indietro. In
un certo senso, quando fissavamo l'obiettivo, eravamo "in posa" per il
futuro. O, in altre parole, per il nostro futuro io, che avrebbe potuto
disapprovare il disordine e i difetti di quel momento. Così prima di
fare una foto, sapevamo che dovevamo sistemarci, curare l'abbigliamento e
trovare qualcosa di interessante - un paesaggio, un attrezzo che
andavamo fieri di possedere, una macchina o un edificio - che ci facesse
da sfondo. Mentre eravamo in posa per il futuro, correggevamo anche il
nostro presente. Il nostro più grande difetto era non riuscire ad essere
moderni come desideravamo. Perciò davanti all'obiettivo, ci sforzavamo
di apparire più efficaci e moderni di quanto in effetti non fossimo. Non
scattavamo le foto per documentare come eravamo nella nostra
quotidianità.
Al contrario, fotografavamo e ci facevamo fotografare per fare colpo su noi stessi.
In
altre parole, ci mettevamo in posa per presentarci a noi stessi sotto
una luce migliore. Ecco perché ci preoccupavamo tanto del nostro aspetto
prima di metterci davanti all'obiettivo. Le feste comandate, i
compleanni e le cerimonie erano i momenti migliori per questi
ritratti...................
Nel nostro quartiere c'era un
negozio con l'insegna Kodak poche vie più su della nostra. Lì si
potevano comprare e sviluppare rullini, e anche fare le foto per il
passaporto.
Il testo è tratto dall'introduzione alla nuova edizione di "Istanbul. I ricordi e la città" di Orhan Pamuk ediz. Einaudi.