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Siamo un gruppo di persone che Ama la lettura e ha deciso di mettere in valigia storie, racconti, fiabe, poesie e di partire per un lungo Viaggio, in mezzo alla gente.
Ad ogni tappa del nostro cammino trasmettiamo con la nostra Voce emozioni che partono da Viaggi lontani, a volte persi nel tempo.
Leggendo parole scritte da vite più o meno note, ma che hanno lasciato un segno nella storia del mondo, possiamo leggere la vita di tutti i giorni e cominciare a scrivere quella che verrà.
L’emozione più grande è leggere negli occhi e nel cuore di chi ti ascolta la condivisione di ciò che arriva dalla nostra anima.
Ed è l’inizio di un nuovo Viaggio…


Le Voci Consigliano

lunedì 13 novembre 2017

Consigli per la lettura: "Istanbul. I ricordi e la città" di Orhan Pamuk

il consiglio del nostro amico Patrizio
Nel 1962 mio padre mi regalò una macchina fotografica. Mio fratello ne aveva già avuta una, due anni prima. La sua assomigliava a una vera camera oscura: una scatola nera di metallo, perfettamente squadrata, con una lenta da un lato e un vetro, dove si poteva vedere proiettata l'immagine, dall'altro. Quando mio fratello era pronto a trasferire quell'immagine confusa sulla pellicola all'interno della scatola, tirava la levetta e click! Come per magia, la foto era fatta.
Quello dello scatto era sempre un momento speciale. Esigeva una preparazione, una cerimonia. Innanzitutto la pellicola era costosa. Era importante sapere quanti scatti si potevano fare con un rullino e la macchina mostrava il conteggio aggiornato delle pose scattate. Parlavamo di rullini, pellicole e numero di scatti come se fossimo soldati di uno sparuto esercito rimasto a corto di munizioni. Ogni fotografia richiedeva un certo grado di riflessione e determinazione: "E' venuta bene?" Fu in quel periodo che cominciai a riflettere sul significato delle foto che scattavo - e sul perché fotografassi. Facevamo quelle foto, ovviamente, per avere un ricordo del momento che stavamo vivendo. Guardando l'obiettivo, ci mettavamo in posa per altri - per lo più amici, parenti, ma anche per noi stessi -, quegli altri che avrebbero osservato tali immagini mesi e anni dopo. Quindi, in realtà, scattavamo quelle foto perché un giorno - forse un mese, un anno o molti anni più tardi - ci saremmo guardati indietro. In un certo senso, quando fissavamo l'obiettivo, eravamo "in posa" per il futuro. O, in altre parole, per il nostro futuro io, che avrebbe potuto disapprovare il disordine e i difetti di quel momento. Così prima di fare una foto, sapevamo che dovevamo sistemarci, curare l'abbigliamento e trovare qualcosa di interessante - un paesaggio, un attrezzo che andavamo fieri di possedere, una macchina o un edificio - che ci facesse da sfondo. Mentre eravamo in posa per il futuro, correggevamo anche il nostro presente. Il nostro più grande difetto era non riuscire ad essere moderni come desideravamo. Perciò davanti all'obiettivo, ci sforzavamo di apparire più efficaci e moderni di quanto in effetti non fossimo. Non scattavamo le foto per documentare come eravamo nella nostra quotidianità.
Al contrario, fotografavamo e ci facevamo fotografare per fare colpo su noi stessi.
In altre parole, ci mettevamo in posa per presentarci a noi stessi sotto una luce migliore. Ecco perché ci preoccupavamo tanto del nostro aspetto prima di metterci davanti all'obiettivo. Le feste comandate, i compleanni e le cerimonie erano i momenti migliori per questi ritratti...................
Nel nostro quartiere c'era un negozio con l'insegna Kodak poche vie più su della nostra. Lì si potevano comprare e sviluppare rullini, e anche fare le foto per il passaporto.


Il testo è tratto dall'introduzione alla nuova edizione di "Istanbul. I ricordi e la città" di Orhan Pamuk ediz. Einaudi.

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