Ambasha
A Goba sono quasi le sei di sera e ha da poco smesso di piovere. L'aria è fredda, frizzante.
In cielo qualche spiraglio di azzurro si affaccia timido tra i tanti nuvoloni grigi.
A terra le ballerine di plastica, le scarpe di tela, i mocassini e i sandali sprofondano nel fango delle stradine interne. Qualche fortunato indossa stivali di gomma e può tentare di attraversare le grandi pozzanghere che si sono formate in alcuni incroci, in cui i carretti trainati dal cavallo si tuffano spavaldi.
Anche i nostri piedi, non solo la nostra pelle, svelano il nostro essere "farenji" (in amarico: uomini bianchi), coperti da scarpe che ci permettono di non bagnarci e di non pigliarci il raffreddore, come buona parte della gente qui, dopo una giornata di pioggia.
A Goba c'è una solo grande strada asfaltata che si interrompe alla fine del paese e prosegue sterrata per condurre ai monti del Bale. In questo periodo alcune delle stradine laterali si stanno lentamente vestendo di sanpietrini che regalano un'aria più elegante e curata a queste vie.
Noi camminiamo nella zona del mercato alla ricerca di ambasha, un pane grande, tondo, morbido e poco lievitato. Davvero buono. Ma da qualche giorno non riusciamo a trovarlo.
Tentiamo in un locale scoperto, grazie ad un ragazzo etiope, il venerdì prima di Pasqua, giornata in cui anche quello, come molti altri posti, era chiuso.
Attraversiamo una veranda coperta da grande telone di plastica, ed entriamo in una specie di bar semi buio. C'è una bimba accanto ad un tavolino alla sinistra del bancone. Avrà all'incirca quattro anni, ha i capelli legati in due trecce e sta mordicchiando proprio un pezzo di ambasha! La salutiamo. Lei prima ci scruta timorosa, poi silenziosa esce sul retro, passando dalla porta dietro il bancone, e va a chiamare qualcuno. Pochi istanti dopo da quella stessa porta si affaccia una signora. Ha un fazzoletto sui toni del lilla legato in testa, e indossa una tunica di un arancione tenue.
Ci scambiamo i saluti e poi le chiediamo: "Ambasha ale?", lei risponde piegando la testa "Ale Ale!", e noi quasi esultiamo ringraziandola.
Sotto il bancone, come possiamo vedere dalla vetrinetta, c'è un unico sacco, niente altro, è lì che tiene quel pane delizioso. Ma prima di porgercelo, ci guarda dritto in faccia e con un guizzo negli occhi, e una buffa pronuncia, ci chiede: "Italiani?". Alla nostra riposta affermativa, le si accende qualcosa nel volto, nello sguardo, come se il nostro "sì" avesse spalancato una porta infondo alla sua vita. In una lingua per noi incomprensibile, le mani posate sopra il cuore, comincia a raccontare. Il ritmo incalzante. Le brillano gli occhi. Capiamo solamente: "Eritrea, Asmara....", nient'altro, ma comprendiamo l'emozione, l'intensità dei ricordi, di un passato che torna a vivere per pochi minuti di fronte a due sconosciuti.
Sento che per un attimo siamo quegli italiani e quell'Italia che, in terra straniera, hanno segnato in qualche modo la storia di questa donna etiope, la sua giovinezza... chissà in che modo, attraverso quali persone, quali eventi...
E la storia esce così dalle pagine sfogliate sui libri di scuola e prende vita in questa stanza illuminata solo dall'ultima luce del giorno, dietro ad un bancone spoglio e tra i colori tenui che incorniciano il volto di questa donna. La abbracciamo. Non c'è altro modo per fare in modo che lei ritrovi la sua "Italia" e noi la vicinanza che con la parole non abbiamo saputo esprimerle.
Il momento dell'abbraccio è accompagnato dal suono della sua voce e da un nome che pronuncia chiaramente: "Carlo Rosselli"... Chissà.
Solamente tre sono le parole che ho compreso, ma mi tengono lì. Immobile ed emozionata.
Poi pian piano si torna al presente... La signora infila due ambasha in una borsetta di plastica parlandoci con entusiasmo e probabilmente invitandoci a tornare da lei.
Le facciamo capire che non mancheremo, perché non siamo turisti ma proprio abitiamo a Goba.
Prima di lasciarci andare, ci tiene a spiegare: niente ambasha il giorno seguente ma tra due giorni!
Regali inaspettati di una terra non poi così lontana. All'ora del tramonto.
Anna.
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