Sono da poco passate le sei di sera ed è già buio pesto.Il taxista fa sosta
dal benzinaio. Ripartiamo. Qualche chilometro di strada asfaltata e poi imbocchiamo
una laterale invisibile di sassi e sabbia, ma popolata di gente a piedi. La
città è appena dietro le nostre spalle, ma sembra un mondo lontanissimo.
La nostra
è l’unica macchina e la luce dei fari è
la sola ad illuminare questo quartiere.
Si procede lentamente, la strada è stretta e le ruote scivolano sulla
sabbia. Nel momento in cui il taxista è costretto a fermarsi, e mettiamo i
nostri piedi a terra,smettiamo di essere solamente spettatori edentriamo anche
noi in questo pezzo di città.
Stringiamo i telefoni accesi tra le mani per guardare dove poggiano i
nostri piedi, mentre ai bordi della
strada qualche banchetto a lume di candela assicura l’apertura serale. Persone lungo
la via, accanto ai “negozi”, nei cortili delle case… la gente chiacchera. Mentre
camminiamo una vocina esce da qualche angolo:“Mundele!”.(Bianco nella lingua
lingala)
Il buio non nasconde la nostra pelle chiara, e anche se non incrocio
lo sguardo della gente sento che ci stanno guardando.
Alberto qualche anno fa ha trascorso qui un mese e,si sa, un bianco che
arriva fino a qua non si dimentica. Qualcuno sussurra il suo nome… Io gli cammino accanto e lo ascolto
raccontare di questo centro per bambini e ragazzi. Orfani o abbandonati, alcuni
vengono dalla strada, altrisono“bambini stregoni”: rifiutati dalla famiglia
perchéaccusati di essere posseduti dal demonio. Qui Alberto è venuto parecchie
volte, per un mese si è svegliato con i ragazzi e con loro ha trascorso le
giornate, aiuta e sostienein tanti modi la coppia che gestisce il centro. E ci
torna prima di partire. Domani prenderà un aereo che lo porterà, dopo quattro
anni in terra africana, definitivamente in Italia. E questa serata è il suo saluto al Congo.
Nel punto in cuiun ruscello di acqua sporca comincia a impossessarsi della
strada, e il percorso si fa un po’ più complicato per i nostri piedi stranieri,ci
viene incontro la Maman.Niente tra le mani a rischiarare i suoi passi sicuri.
Abbraccia Alberto e mi stringe la mano presentandosi. È lei la donna che
insieme al marito, parecchi anni fa, ha aperto questa “casa”.Andava lei stessa
a raccogliere i ragazzi per la strada. Ora è il governo a inviare i bambini. In questo momento ne accolgono una quarantina.Ogni tanto qualcuno
di lororiesce a far ritorno in famiglia, accolto da un parente.
Finalmente dopo qualche saltello da una sponda all’altra di questo ruscello, un portone si apre. Un
cortile di cemento pieno di ragazzi e ragazze che rimangono fermi a guardarci,
mentre un gruppetto di bimbi ci corre incontro. Uno di loro mi abbraccia
timidamente, e poi si allontana.
Rimangono in silenzio nel buio di questa serata che a me sembra notte
fonda.
Nel cortile interno si affacciano stanze di varia grandezza: il
refettorio, il dormitorio delle ragazze e quello dei ragazzi, l’ufficio, le
aule.
Un educatore, persone che ogni
tanto vengono a dare una mano, giovani della parrocchia, volonatari: c’è un bel
movimento intorno e dentro a questa realtà e io provo a immaginarlo nella calma
di questo fine giornata.
Visitiamo il piccolo laboratorio di sartoria, aperto, come la scuola
di alfabetizzazione,agli esterni. Attività queste che permettono un minimo di
autosotentamento. Perché nonostantei progetti, qualche finanziamento e un turn
over di ong, non c’è nessuna garanzia costante. Non sempre si riesce a mangiare
tre volte al giorno.
E poi… Poi inaspettatamente, dopo esser usciti dall’ultima stanzetta,il
buio si accende e nel fascio di luce della pila della Mamancompare una bimba. Qui
è sempre difficile dare un’età: quattro-cinque anni, o forse di più, poco
importa. Ha alle spalle l’alto muro di cinta. Per metterci alla sua altezza
dobbiamo inginocchiarci. È seduta a terra, ha entrambe le gambe ingessatee
indossa una camicetta rosa.Si chiama Gloria. Ha i capelli corti e lunghe ciglia.La
accarezziamo e le parliamo, lei sposta il suo sguardo verso di noi e risponde
con un sorriso che le illumina il volto. Non esce nessun suono dalla sua bocca,
non parla Gloria.Ci guarda e sorride. Sta per portarsi un pezzetto di carta
alla bocca quando,alla voce della Maman che le dice “No”, allontana la mano.Vive qui da un anno. Mangia
bene, capisce frasi brevi e semplici.
Sonole risposte alle nostre domande. Vorrei farne tante altre, ma
rimangono,insieme a Gloria,sedute nella mia testa. So già che non se ne
andranno facilmente.
Poi la pila si spegne e Gloria non c’è più.
Ci muoviamo, qualche passo e siamo di nuovo in mezzo al grande gruppo.
Rimango a chiaccherare con una delle ragazze. Mi racconta delle sue
giornate:i turni per preparare da mangiare, l’acqua da prendere dalpozzo dei
vicini, le pulizie, i più piccoli di cui occuparsi…
Prima di salutarci la Maman ci presenta uno dei ragazzi più grandi, e
lo rimprovera affettuosamente. Va e viene dalla strada.
Siamo ormai al cancello quando Alberto si accorge di una ragazza, pronucia
il suo nome mentre la abbraccia. È stata accolta quando anche lui viveva qui.Prima
di buttarla fuori casa le hannobruciato
le braccia con i cavi elettrici, probabilmente nel tentavivodi allontanare il
diavolo dal suo corpo.
Una ventina
di minuti e faccio ritorno al mio condominio illuminato.
Chissà quante luci rimangono spente in questa città, senza alcun faro che
si posi ad illuminare le vite sedute nel buio.
Anna
Come al solito riesci ad emozionarci con le tue fotografie di parole. Grazie.
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